Swipe – Il racconto

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IL MONDO DI AMORE ESISTENTE
2087. Alla Human Essence Robotics il professor Martin Bishop e la sua assistente dottoressa Serena Thompson avviano il primo progetto di esistente: Liam. Come affidataria viene scelta una semplice impiegata, Jackie Stone.
Al primo prototipo segue un modello femminile: Nora. I tecnici della HER sono in piena programmazione, proprio ora…

© SWIPE [IL RACCONTO] – Daniela Spagnuolo 2023
22.04.2087, ore 21:35
Sede della Human Essence Robotics, laboratorio informatico
«Kurt, guarda un po’ qua!»
La voce di Xena mi fa reagire di riflesso. Le mani si arrestano sulla tastiera. La specifica che mi ha appena lanciato con uno swipe scivola sull’enorme schermo che ci avvolge come un bozzolo e si arresta davanti al mio sguardo.
Xena è dietro di me, lavoriamo voltati di schiena, ma io ne percepisco la presenza come se avessi mille sensori piazzati sotto il cranio. Avrà appena accavallato le gambe, lo fa sempre quando sa di aver raggiunto un obiettivo e il tono sicuro della sua voce mi dice che è così.
Lascio che il pensiero dei suoi leggings attillati mi trascini via. Immagino le sue caviglie sottili affondare negli anfibi slacciati, mentre i suoi capelli viola, lisci come seta, le sfiorano le spalle a ogni minimo movimento.
Ritorno allo schermo appena lo zip intermittente rilascia l’immagine del telaio in netrex che protegge il nuovo prototipo ERS3, Nora. Le annotazioni di Xena scorrono accanto alla riproduzione 3D delle parti anatomiche.
«Ho ridotto il volume complessivo adattandolo al design del modello.»
Sento la sua voce allontanarsi verso l’estremità del videowall. Il suo sedile mobile scorre in sospensione con un leggero fruscio.
«Con quest’ultima modifica dovremmo rientrare nei limiti di consumo energetico previsti per un corpo femminile. Attendo la tua conferma per validare il target.»
Prendo un lungo respiro. La sua richiesta è diretta, professionale e non ha la minima idea di cosa mi provoca quando mi parla così.
«Procedo alla verifica.» Svuoto i polmoni tutto d’un fiato e preparo le dita alla rincorsa. I movimenti si lanciano in un flusso senza sosta. Neppure il ritornello K-Pop, mieloso e insistente, riesce a rallentarmi. Curvo la schiena e vinco la melodia tutta glitter e confetti digitando a doppia velocità.
Detesto questo genere di musica e Xena lo sa bene. Sospetto che la scelga apposta, solo per mettermi alla prova.
“L’idea che dietro queste canzoni ci sia un vero torace scoperto, scolpito da ore di allenamento, stimola la mia creatività.”
Questa è la risposta di miss anfibi slacciati ogni volta che le chiedo cosa ci trova in questo strazio che chiama musica.
Torace scolpito un corno. L’IA di un qualsiasi robot di servizio saprebbe fare una figura migliore. E lei lo sa bene, perché adora il metallo pesante proprio come me, ma la sua strafottenza mi esaspera a tal punto da farmi venir voglia di zittirla in modi tutt’altro che professionali.
Attivo il sistema di spostamento con troppa foga e la seduta schizza di lato, fermandosi di colpo. Per un soffio evito di ribaltarmi. Mi riporto indietro con cautela, mentre la postazione mi asseconda con un leggero sbuffo d’aria. Trattengo il fiato, sperando che Xena non abbia notato nulla.
«Target raggiunto.»
Alla mia dichiarazione fa eco il suo compiaciuto “Vai così!” e io vorrei girarmi, saltare giù da questa specie di giostra ipertecnologica e abbracciarla, forte, con tutto il mio corpo. Dio solo sa quanto vorrei farlo e invece rimango immobile, bloccato come un pezzo di ferro arrugginito, capace solo di assorbire il profumo di vaniglia dei suoi capelli a palpebre strette.
Drizzo le spalle. Non dovrei pensare a lei, almeno non in questo modo. Noi siamo le due metà di una macchina calibrata alla perfezione e dobbiamo rimanere lucidi e sincronizzati. Le distrazioni occupano spazio e a noi serve la mente sgombra da ogni possibile interferenza.
Interferenza. Ricordarsi di comprare i cereali è un’interferenza. La vescica che chiama è un’interferenza. Le scarpe strette sulla punta sono un’interferenza.
Lei, invece, è la presenza che mi fa dimenticare tutto il resto.
Senza di lei questo lavoro non sarebbe lo stesso e le sono grato per il solo fatto di esistere.
Nel corso delle nostre giornate le ore scorrono senza che i nostri sguardi si incrocino, eppure saprei dire con esattezza in quale punto della stanza si trova e a quale altezza dello schermo si sta muovendo la sua mano robotica, veloce oltre ogni capacità umana.
Il che farebbe pensare a un’intesa eccezionale. E lo è, fino a quando non incontro i suoi occhi. Perché è proprio nei rari momenti di faccia a faccia che rovino tutto. E lei, con ogni probabilità, crede che il mio imbarazzo sia legato alla sua protesi robotica. Ma si sbaglia di grosso.
Xena ha un braccio CORA6: un innesto ultraleggero rimovibile e completamente customizzato, che indossa in alternativa a quello umanomimetico. Le sue dita ad alta precisione eseguono fino a quattro comandi simultanei, raggiungendo un livello di accelerazione inafferrabile per l’occhio umano. Dispositivi di questo calibro sono riservati a pochi eletti nel nostro Paese e destinati esclusivamente all’uso professionale. Xena può utilizzare il suo braccio potenziato solo all’interno della HER, vincolata da rigide autorizzazioni.
Quando osservo da lontano quel capolavoro di ingegneria fuso con il suo corpo da sogno, non posso fare a meno di restare incantato.
Le note insistenti di una nuova hit coreana mi strappano dai pensieri. In un istante sono di nuovo avvolto dal chiarore dello schermo.
Inspiro a fondo quando il brano svanisce nel silenzio, lasciando spazio all’unica voce che non potrei mai fare a meno di ascoltare.
«Personalità vivace e intraprendente… bla, bla, bla… Tenacia 87%. Caspita! Un bel tipetto la nostra Nora. Pensa a cosa sarebbero quattro mesi di affidamento temporaneo con una così! Dai Kurt, candidati come affidatario. Sembra fatta apposta per te!»
Le dita si staccano di colpo dalla tastiera, stringo i pugni.
C’è una sola persona con la quale vorrei trascorrere il mio tempo, la stessa che non perde occasione per provocarmi.
A un tratto le stringhe di codice che potrei compilare mentre recito l’inno nazionale al contrario evaporano nella nebbia. Sposto lo sguardo per un istante, quel tanto che basta per riprendere il controllo, ma ne esco sconfitto, battuto dal mio stesso riflesso.
A fissarmi c’è uno sfigato fatto e finito: guanciotte che se ne infischiano del mio sottopeso facendomi sembrare un adolescente scappato dal riformatorio, occhi chiari dal taglio sfuggente tipo golden retriever triste e una zazzera ribelle che nemmeno la genetica sa spiegare. La faccia perfetta per uno sviluppatore di sistemi energetici bioapplicati che, prima ancora di finire il dottorato, ha già collezionato più riconoscimenti dei suoi stessi professori.
Il solito cliché del nerd a cui un bell’aspetto non serve.
All’improvviso mi sento precipitare in una voragine senza fine. Provo la stessa frustrazione di quando un intruso compare nel passaggio tra i nostri schermi o, peggio, quando l’intimità del nostro spazio viene polverizzata dall’avviso di una chiamata, per esempio mia mamma che dice “Kurt, tesoro, ricordati i tuoi esercizi per la schiena. Il dottor Zho dice che una schiena dritta fa sembrare più alti.”
Stringo le palpebre e premo i palmi contro i ricci ribelli. Nella mia testa ho già strappato via la t-shirt da genio incompreso — larga, scolorita, con una citazione che solo tre persone al mondo potrebbero comprendere — per sfoggiare un ammasso di pettorali da licantropo pronto a far fuggire tutti a gambe levate: mia madre, i colleghi, il dottor Zho, i vip palestrati. Tutti tranne Xena.
Poi la realtà mi travolge di nuovo, ricordandomi che il mondo fuori da questo minuscolo spazio protetto non può semplicemente dissolversi. Devo farci i conti, in un modo o nell’altro. Così ingoio il rospo e tiro dritto, proprio come faccio sempre.
«Verifica la percentuale di netrex del nodo 42b.» La determinazione di Xena è incrollabile e mi spinge a darmi da fare. Le dita scorrono rapide sulla tastiera mentre risolvo con disinvoltura una serie di algoritmi a dir poco ostici.
Senza pensarci allungo la mano nel vano portaoggetti accanto a me, cercando alla cieca la bottiglietta d’acqua. Le dita scivolano su qualcosa di unto, una confezione vuota di insalata. Guardo la mano imbrattata e trattengo un’imprecazione. A quanto pare i robot addetti alla pulizia hanno bisogno di un upgrade come si deve. Strofino il palmo contro il bordo della seduta nel disperato tentativo di pulirlo e inizio a parlare per coprire i rumori sospetti.
«A che punto sono gli altri con l’avanzamento dell’ànemos?»
«Indietro anni luce!» ribatte Xena con voce divertita.
Accenno un sorriso. «Scommetto che in questo momento saranno in qualche fast food a rimpinzarsi di pizza e birra.»
«Non sarai mica invidioso?» La domanda mi spiazza.
«Chi? Io? Per niente. Sono allergico alle uscite pizza e birra.»
Torno a tuffarmi nel codice di programmazione senza fiatare. Cerco di non pensare alla stronzata che ho appena detto e termino un paio di routine che meriterebbero la firma a caratteri d’oro.
Click, click.
«Merda!» L’imprecazione che ha la voce di Xena mi arriva forte e chiara.
«Che succede?» chiedo senza distogliere lo sguardo dallo schermo.
Nessuna risposta. Brutto segno.
Mi volto esitante e la trovo china sul suo polso robotico, le dita che sfiorano con insistenza un punto preciso tra cavi e componenti metalliche.
Con un gesto lento allontano il piano multifunzionale e salto giù dalla seduta.
Due delle sue dita metalliche si contraggono a scatti, inceppate. Mi faccio coraggio e mi chino, il cuore che accelera mentre il suo profilo dolce e assorto si fa più vicino. Dovrei concentrarmi sul suo problema, ma proprio non ci riesco. La sua pelle, liscia e vellutata come quella degli esistenti, mi cattura facendomi dimenticare chi sono. Indugio con lo sguardo sul caschetto che le incornicia il viso, poi scendo lungo la linea del suo corpetto lucido fino alle forme esaltate con sfrontatezza.
È allarmata. Ed è splendida.
Quando solleva lo sguardo e punta i grandi occhi neri nei miei rimango impietrito. Sta aspettando una reazione, un segnale, qualsiasi cosa che le dica che sono vivo e presente.
«Cosa dice la diagnostica?» sputo fuori d’un fiato.
«Guasto in uno dei raccordi» risponde agitata. «L’impulso elettrico è interrotto, ma non riesco a individuare il punto esatto.» Lascia cadere le spalle, esasperata. «Non ora, maledizione! Sei anni di servizio impeccabile e decide di piantarmi proprio adesso? Non ci credo!»
Il display che le fascia il polso lampeggia senza tregua, impassibile alla sua frustrazione.
«Vedrai che è solo un guasto momentaneo.» Provo a rassicurarla, ma le parole suonano finte come uno spot da quattro soldi.
Mi mordo le labbra, vorrei sotterrarmi. Lei mi fissa per un istante e nel suo sguardo c’è qualcosa che non so decifrare. Per un attimo i suoi occhi scivolano sulla mia bocca.
Trattengo il fiato. Temo che il mio tentativo di consolarla sia la goccia che sta facendo traboccare il vaso. So quanto ci tiene a quel braccio robotico, per lei è molto più di un semplice strumento e io non ho ancora capito il motivo.
Mi sorprende quando abbassa lo sguardo e comincia a parlare con un filo di voce, stringendosi il braccio come fosse ferito.
«Dovrò mandarlo in riparazione.» Si volta, scuotendo la testa. «Sarò costretta a lavorare con la mano mimetica.»
Lo dice quasi fosse una condanna.
Stringe in un pugno le dita ancora sotto il suo controllo, le altre continuano a scattare con spasmi incontrollati.
«Tanto vale prendermi una vacanza e recuperare il tempo perduto dopo la riparazione. Un quarto d’ora robotico copre un giorno di lavoro umano.»
La sola idea di rimanere senza Xena è un colpo allo stomaco. Se lei non c’è, il mio cervello ultraperformante va in tilt, si inceppa, proprio come le sue dita.
Mi raddrizzo di scatto, deciso a trovare una soluzione e in fretta. Ma non ci sono algoritmi da decifrare, né formule da applicare per tirarla fuori da questo impiccio.
Xena accorcia le distanze e mi mostra il piccolo display che brilla all’interno del polso. Il suo profumo di vaniglia mi avvolge togliendomi quel poco di lucidità che mi rimane. Distolgo lo sguardo da lei e mi concentro sul monitor. L’allarme che lampeggia ci mette spalle al muro: l’innesto ha bisogno di assistenza immediata.
«Cazzo!» sbotta lasciando cadere il braccio lungo il fianco alla stregua di un’appendice inutile.
Vorrei assorbire tutto il suo dispiacere, farlo mio. Ma non posso.
Cos’ha quel braccio di tanto importante? È come se privandosene non fosse più lei.
Come fa a non capire quanto è geniale, incredibilmente brillante e bella. Bella da morire. Nulla potrebbe toglierle tutto questo.
Le parole mi scivolano fuori dalla bocca prima che possa fermarle: «Mettilo nella sua custodia e consegnalo al primo robot che trovi in reception. Phys si occuperà di tutto, vedrai. Tornerà come nuovo in un batter d’occhio. Poi vieni qui con il braccio mimetico e decideremo sul da farsi. Vedrai che la situazione non è così impossibile come sembra. Ti assicuro che il tuo braccio tornerà più efficiente di prima».
La sua espressione cambia. Mi fissa e qualcosa in lei si distende, si addolcisce. Annuisce in silenzio e sparisce nello spazio tra i pannelli luminosi.
Aspetto per un tempo che sembra infinito. I dubbi mi divorano.
Riuscirà mai a vedersi come la vedo io?
Quando torna il suo sorriso illumina la stanza più degli schermi. Il cuore mi sobbalza nel petto, avvampo, mi riduco a un pugno di cenere senza nemmeno fare la fiamma. Per un attimo mi illudo che quel sorriso sia per me e la fantasia prende il sopravvento. In un angolo sperduto della mia mente siamo due estranei che si incrociano per la prima volta in un locale alla mano, immersi nella musica dal vivo, le luci soffuse e il profumo di avventura sospeso nell’aria. Io sono la versione migliorata di Kurt: fascino irresistibile e carisma da vendere. Lei… lei è sempre Xena. Sarebbe la serata pizza e birra più bella della mia vita.
Con i muscoli tesi per il timore che i suoi occhi scuri abbiano captato anche solo un’ombra di quel pensiero, rispondo al suo sorriso radioso con un cenno del capo e mi rifugio di nuovo nel perfetto incastro della mia postazione.
Mi accomodo, già pronto a riprendere il lavoro interrotto.
«Voltati!»
La sua voce non è una richiesta, è un comando. Mi giro senza opporre resistenza, il fiato sospeso, il petto gonfio d’incertezza.
Lei nasconde la mano dietro la schiena, come se volesse cancellarla. «Mi raccomando… Prometti di non guardarmi mentre uso questa cosa!» mi intima.
Rilascio le spalle, affranto e affilo lo sguardo. Nemmeno un braccio tentacolato potrebbe imbruttirla. E se un giorno decidesse di mostrarsi per quello che è, senza nascondere la parte di sé che la vita le ha strappato, splenderebbe lo stesso di una bellezza inarrivabile. Quel pensiero rimane confinato dietro le sbarre della mia timidezza mentre riporto il piano di lavoro davanti a me.
Riprendo il filo della routine interrotta, ma ogni fibra del mio corpo rimane vigile, pronta a captare anche il più impercettibile segnale alle mie spalle.
«Torna al nodo 42b.» La voce di Xena risuona nell’aria come una frustata.
Segue un sospiro, poi un altro, più concitato. «Ingrandisci, maledizione. In-grand-isci questo maledetto nodo.»
Mi volto piano e la trovo a stringere e aprire la mano a scatti, come se volesse cavare gli occhi a qualcuno. Esasperata, la ragazza di cui non potrei mai fare a meno, esegue uno dei gesti più usati al mondo nella maniera sbagliata e il sistema si rifiuta di riconoscerlo.
In quel momento, spinto da un impulso più forte della logica, lascio la mia postazione e faccio qualcosa che non avrei osato nemmeno nei sogni. Appoggio la mano aperta sulla sua. Un tocco leggero, ma sufficiente a farla sussultare. Il cuore si lancia in una corsa sfrenata. Lo ignoro e torno a toccare la sua pelle mimetica, questa volta con più fermezza.
Quella mano che lei non riconosce come sua, mi trasferisce emozioni che riesco a contenere a stento. La sento arrendersi sotto il mio tocco e ho l’impressione che tutto il calore del mio corpo si stia riversando in quel contatto. Per un istante ho la sensazione di proteggere qualcosa di fragile e prezioso. Con movimenti lenti, intreccio le dita alle sue e le guido il braccio in avanti. Le nostre mani sono una sola.
Il nodo 42b si espande a tutto schermo.
Resto immobile, lasciando che il calore del nostro contatto si imprima nella pelle ancora per un istante. Poi con uno sforzo quasi doloroso ritraggo la mano, combattendo contro l’istinto che mi urla di restare. I miei occhi si posano sul suo profilo immerso nel bagliore del monitor e in quel momento le parole escono da sole, senza filtri.
«Xena, tu sei perfetta. Così come sei.»
Mi volto e torno al mio posto. Le dita si rimettono a fare quello in cui riescono meglio, volano sui tasti, ma il cuore continua a martellarmi in gola. Sento la sua voce riprendere il flusso delle annotazioni, la normalità sembra ristabilirsi. Eppure dentro di me scatta qualcosa. Un flash improvviso che annulla ogni esitazione.
«Mi devi una serata, Xena. Pizza e birra.»
«Pensavo detestassi le uscite pizza e birra.»
La sua risposta pronta tramuta il mio slancio di entusiasmo in una rovinosa caduta nel vuoto. Mi sto già dando dello stupido quando lei riprende a parlare: «Ok, Kurt. Domani. Alle otto. Puntuale. Al Void Club».
In quel momento, con le dita che stritolano la tastiera e il cuore in gola, mi sento come se la mia programmazione difettosa si fosse trasformata nel miglior codice mai scritto, e torno a respirare.
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Tutti i diritti sono riservati.
Questo racconto è opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, esistenti o esistite, è puramente casuale.
Grazie di cuore per la lettura!
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La scrittura di Daniela è scorrevole, con dettagli tecnici comprensibili anche a chi non è del mestiere.”
Alice
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Ombra
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Chiara
“…questa meraviglia che è un inno alla dolcezza e al diritto di essere fragili.”
Enrica
“Molto ben scritto e curato, con un ritmo che prende la mano con dolcezza e delicatezza”
Ambra